Bruno Segre, un amico

Il nostro amico Bruno Segre ha pubblicato un libro dal titolo: "Che razza di ebreo sono io. Questa è la recensione pubblicata dall'Osservatorio Romano.

Storia di un ebreo anomalo

· Il libro di Bruno Segre a sfondo autobiografico ·

21 dicembre 2016


Una storia particolare, quella di Bruno Segre, ebreo “anomalo”, che si interroga e mette in discussione non solo il significato del proprio essere ebreo, ma anche quello, complesso e spinoso, dell’identità ebraica stessa. In Che razza di ebreo sono io (Casagrande editore), frutto di una conversazione con il regista cinematografico Alberto Saibene, il pacato e meticoloso racconto delle vicende della famiglia Segre si inserisce nella drammatica cornice della grande Storia, dal Novecento ai nostri giorni.

Figlio dell’ebreo Emanuele e della musicista anglo-irlandese Kathleen Keegan (nata a sua volta da un matrimonio misto tra un cattolico di Dublino e un’ebrea viennese), Bruno Segre ricorda come i suoi genitori abbiano sempre manifestato “una spiccata allergia per ogni tipo di osservanza religiosa”, e continua: “Sono cresciuto a Milano in via Donizetti. E finché mi fu possibile, frequentai la scuola comunale di via Corridoni, vicinissima a casa. L’unica cosa che i miei genitori chiesero alla scuola fu quella di esentarmi dalle lezioni di catechismo. In quelle ore, quindi, restavo fuori dall'aula”. Quella di Bruno Segre è una famiglia medio-borghese, laica, cosmopolita e antifascista, non frequenta la comunità ebraica: spiritualmente aperta a qualsiasi tipo di incontro e di sodalizio, si muove in uno spazio senza frontiere, tanto fisiche quanto culturali. Ma il clima artistico, libertario, internazionale che si respira in casa, dovuto soprattutto alle riunioni concertistiche private della mamma, inizia ad incrinarsi dal 1938 in poi, con la promulgazione delle leggi razziali: le voci dal resto del mondo parlano di paura, fughe, persecuzioni: “Dai discorsi di questi amici ‘musicali’ – commenta Segre - emergevano accenni a parenti scomparsi, a fughe precipitose in cerca di sicurezza, a progetti di future destinazioni oltremare, a luoghi e residenze ancestrali abbandonate. Poco alla volta, questa trama di rapporti andò allargandosi ben al di là della comune passione per la musica, sino a investire una cerchia più ampia di uomini e donne con una varietà incredibile di nomi, cognomi, Paesi di provenienza e di destinazione: un piccolo campionario di Mitteleuropa in esilio, persone ‘senza casa’ che, nella mia mente di bambino, componevano una variopinta tribù della quale anche noi ? papà, mamma e figli ? facevamo idealmente parte”. Via via che sull’intera Europa viene addensandosi la tempesta del nazifascismo, il senso di appartenenza e di solidarietà con le vicende del popolo ebraico, sempre vissuto in chiave laica dalla famiglia Segre, inizia a rivestire un’importanza crescente. “Penso che molti altri ebrei italiani secolarizzati, come eravamo noi, - aggiunge lo studioso - si siano ritrovati in quegli anni a fare i conti con la propria ebraicità”.

Nel 1938, Bruno ha otto anni e con l’entrata in vigore delle leggi razziali si chiudono per lui le porte della scuola. Lo spensierato mondo dell’infanzia di un bambino italiano della buona borghesia milanese va in frantumi: “La mia è stata un'infanzia abbastanza solitaria. Mi è mancato il mondo dei coetanei. La scuola era a un passo da casa e quando incontravo dei compagni, a quel punto ex, non mi vedevano più. Ero diventato invisibile”. La sua istruzione continua, ma in modo privato, dato che, per legge, non può sedere sul banco di una scuola media frequentata da coetanei “di razza ariana”. Dopo l’improvvisa e prematura morte del padre e i pesanti bombardamenti su Milano, si vede costretto a cambiare continuamente, e in modo fortunoso, casa, città, abitudini, identità: “Oggi, col senno di poi, sappiamo che nell’estate del 1943 il grosso della Shoah c’era già stato. Ma allora noi, in Italia, sapevamo ben poco, non conoscevamo l’entità delle stragi in corso, l’esistenza stessa dei campi di sterminio, le dimensioni della catastrofe. Ma in compenso avevamo idee chiarissime circa i pericoli ai quali l’invasione dei nazisti ci stava esponendo”. Dopo il definitivo crollo del nazi-fascismo nel maggio 1945, caricando le poche valigie su un camion, con madre e sorella sedute in cabina accanto all'autista, Bruno Segre, accovacciato in mezzo al carico di mele, riesce a rientrare da Ascoli Piceno ? dove la famiglia aveva trovato rifugio quando i tedeschi invasero l’Italia ? a Milano: “Della sorte dei nostri famigliari non sapevamo niente. Anche dei Lager sapevamo poco, anzi pochissimo. Le prime frammentarie notizie sulla Shoah le avevamo avute ad Ascoli da Radio Londra, nell'estate 1944. Ma l'enormità della catastrofe ci si rivelò soltanto a tragedia consumata”. Dopo la laurea in filosofia alla Statale di Milano, lavora al fianco dei più vivaci intellettuali italiani di quel periodo, prima in Mondadori, poi presso il Movimento Comunità di Adriano Olivetti. Nel 1948, Segre approva, con gioia e sollievo, la nascita dello Stato di Israele: “Fu una svolta storica che salutai con entusiasmo. La nascita di uno Stato in cui i sopravvissuti alla Shoah ritrovassero una patria mi sembrava un atto di giustizia, un risarcimento della storia”. Israele, durante il suo primo viaggio, gli appare come una realtà piena di sorprese, fascino, creatività: “Le persone che incontravo mi sembravano i liberi cittadini di una società egalitaria, piccola ma destinata a svilupparsi secondo modalità imprevedibili: donne e uomini non tanto preoccupati di chiudere i conti con le atrocità, tutte europee, di un recente passato, quanto protesi a guardare in avanti, pieni di estro creativo, impegnati a costruire senza modelli precostituiti un futuro di libertà per sé e per i propri figli, e inflessibili nel tutelare tali libertà”. Eppure, l’impresa libertaria che aveva espresso il bisogno di riscatto degli ebrei d’Europa, si infrange, nel 1967, in seguito alla Guerra dei sei giorni, a partire dalla quale si assiste, secondo Segre, al graduale sviluppo etnocratico di un Paese plurale e complesso, egemonizzato da una classe politica convinta che, per sopravvivere, Israele debba diventare una società più coesa, più fortificata, una società che assicuri alla sua maggioranza ebraica condizioni di chiaro privilegio, riduca al minimo indispensabile gli spazi riservati agli ‘altri’ e limiti le possibilità consentite di dissenso.

Favorevole alla soluzione politica dei due stati per i due popoli palestinese ed ebraico, Bruno Segre è stato presidente dell’ “Associazione italiana degli Amici di Nevé Shalom/ Wahat al-Salam”, fondata nell’estate 1991, un’ “oasi di pace,” in cui convivono israeliani ebrei e arabi. Il villaggio multireligioso è nato per volontà di Bruno Hussar, sacerdote dell’ordine dei Domenicani, di cultura francese, nato al Cairo nel 1911 da genitori entrambi ebrei e morto a Gerusalemme nel 1996. La figura stessa di padre Hussar è testimonianza di come diverse identità possano convivere armonizzandosi. Bruno Segre, che lo ha conosciuto ormai ottantenne, ricorda le parole stesse del sacerdote, che amava definirsi un uomo con quattro identità: “Sono ebreo a pieno titolo in quanto figlio di genitori entrambi ebrei; sono cristiano (“un ebreo discepolo di Gesù”, preferiva dire) in quanto ho ricevuto il battesimo; sono israeliano avendo regolarmente acquisito la cittadinanza dello Stato d’Israele; sono e mi sento vicino e in sintonia con gli arabi, con il loro mondo e le loro istanze, grazie al fatto d’essere nato al Cairo e d’avervi trascorso gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza”.

Il dialogo interreligioso e l’educazione alla pace possono dunque essere considerati i frutti di una proficua riflessione sulla Shoà se questa, secondo Bruno Segre “non si esaurisce in una rievocazione retorica e sterile del male, in una sorta di postumo premio di consolazione offerto alle vittime e ai loro eredi. Se il ricordo dell’orrore non si salda a un’interrogazione lucida circa il nostro orrido presente, e non suggerisce l’idea di un futuro meno indecente del passato che abbiamo dietro le spalle, la rituale invocazione ‘ciò non deve accadere mai più’ cade nel vuoto, non serve a nulla. Trasmettere la memoria della Shoah significa favorire nelle giovani generazioni la progettazione di un avvenire vivibile, da condividere fraternamente con tutti i figli degli uomini”.

Elena Buia Rut


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